Nunzio La Fauci



Il 25 novembre 2005, nel corso di una festosa riunione presso la saletta delle Edizioni ETS di Pisa, in piazza Carrara 16, ho presentato a Riccardo Ambrosini il mio opuscolo Facettes de linguistique rationnelle, stampato in cento esemplari numerati e firmati e a lui offerto nell’occasione del suo ottantesimo anniversario, che, quel giorno, era trascorso da meno di due settimane. Quanto segue è il breve discorso che ha preceduto la consegna al dedicatario del primo esemplare delle Facettes.


Il 4 gennaio 1894, seduto alla sua scrivania, Ferdinand de Saussure era intento a licenziare la sua risposta a una lettera di Antoine Meillet che stava sul suo tavolo da qualche mese. Nei giorni precedenti aveva già steso un testo, così veridicamente amaro che un imbarazzato Robert Godel, rendendolo noto sessanta anni dopo (con qualche errore di trascrizione, poi corretto da Émile Benveniste), si sentì in dovere di attribuirlo alle turbe dell’umore più che all’intelligenza critica del linguista ginevrino. Troppo crudamente vi si considerava uno smisurato coacervo di stupidaggini la scienza pregressa in materia di lingue e linguaggio, ivi comprese le superbe filologie delle grandi scoperte e delle monumentali sintesi ottocentesche (ancora insuperate e forse insuperabili). Peggio: verificata l’irrealizzabilità del loro smantellamento, tali premesse negavano alla linguistica (vi si dichiarava) ogni futuro d’accettabile ragionevolezza e credibilità scientifica. Ma a Saussure, seduto alla sua scrivania quel 4 gennaio 1894, ciò non doveva parere abbastanza: sul piano personale, aveva ancora qualcosa da dire al suo giovane corrispondente francese.

Caro maestro”: così esordiva la lettera di Meillet. E a quell’allocuzione Saussure stava appunto ripensando quando, con la determinazione di conchiudere finalmente almeno una lettera, aggiunse alle sue carte una data in post scriptum (il 4 gennaio 1894, appunto) e un paio di righe, di celata e feroce ironia (non solo riflessiva): “Permettez-moi un petit post-scriptum. Vous voulez bien m’appeler votre maître, et je serais bien flatté d’avoir mérité ce titre en quoi que ce soit. Mais je tiens davantage à un autre, et si vous le voulez bien, nous correspondrons désormais entre amis”1.

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Meillet non capì o finse di non capire? Non si sa. È certo però che erano passati meno di dieci anni da quel giorno quando sparò su Saussure la celeberrima dedica della sua Introduction à l’étude comparative des langues indo-européennes: “À mon maître M. Ferdinand de Saussure…”. Il botto nella cosiddetta comunità scientifica, soprattutto quella a venire, fu enorme. Passato più di un secolo se ne sente ancora rombare lontana l’eco. Come forse mai avrebbe voluto, Saussure fu così definitivamente servito. Sulla strada aperta da Meillet, il primo ad appropriarsi con pubblico clamore di tale maestro, altri si incamminarono. Morto Saussure e con la complicità della vedova, lo fecero esemplarmente gli autori, per altro benemeriti, del Cours de linguistique générale, a proposito dei quali si sorvola di norma sul fatto che non seguirono mai i corsi di Saussure di cui si incaricarono poi di curare l’edizione, sul fondamento di appunti altrui e nel silenzio (sdegnoso? sdegnato?) di qualche testimone autentico.

Sulla strada della millanteria, si è incamminata del resto nel suo complesso quella linguistica cui Saussure, innalzato per paradosso a suo archegeta, aveva invece negato ogni futuro. Ma è ora di chiudere la narrazione dell’aneddoto, intesa semplicemente a illustrare, sulla scala del maggiore per il minore, la circostanza del presente incontro più meritevole di un caveat.

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Le edizioni ETS, che ci ospitano e che ringrazio della generosa disponibilità e della magnanima disposizione spirituale, hanno raccolto e fatto propria con entusiasmo la mia proposta di festeggiare Riccardo Ambrosini in occasione del suo ottantesimo compleanno (da cui sono trascorse poco meno di due settimane). Il festeggiamento ha preso la forma di questo nutrito raduno di suoi amici e ammiratori, presenti di persona o in ispirito (come testimoniano le decine di lettere inviate agli organizzatori e, ne sono certo, anche al festeggiato), raduno cui fa da pretesto la pubblicazione, in edizione fuori commercio e limitata a cento esemplari, di un opuscoletto sulla cui copertina, oltre al titolo, stanno il nome di Riccardo Ambrosini, come dedicatario, e il mio, come autore. Lo dichiaro apertamente: la dedica è all’amico. Imponente come una montagna, il precedente appena riferito esige cautela e discrezione.

Caro Ripio, lasciamo che altri corrano incontro (quanto consapevoli?) alla certezza del ridicolo, scambiandosi, in occasioni simili, senza arrossire di vergogna i titoli, tanto roboanti quanto a buon mercato, di maestro e di scolaro. Insomma, prima che chiunque altro lo faccia, lascia che, dandoti, se mi autorizzi, dell’amico e prendendo lo stesso titolo nei tuoi confronti, io sorrida di me (e quindi di tutto il me che, in amicizia, ti devo) e che, sommessamente, ti inviti a sorridere, oltre che di me, anche di te, e quindi del te che, in amicizia, tu mi hai generosamente concesso nei trenta anni che abbiamo fin qui trascorso in affinità spirituale e comunanza di interessi.

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Riccardo Ambrosini (e torno così a una più consona terza persona) si è per altro sempre difeso da sé medesimo dall’abusivo uso nei suoi confronti del corrivo appellativo di “maestro”, nel modo più nobile, elegante ed assoluto: restando cioè privo di una scuola. E la privazione non è accidentale (così la intenderebbe forse solo qualche interprete vanesio e superficiale di vicende accademiche), ma necessaria, essenziale, avendo pienamente a che fare col suo pensiero, col suo animo, con la sua esperienza esistenziale.

Ne parlai distesamente sei anni fa, quando la Facoltà di Lingue dell’Università di Pisa, auspice Filippo Motta, m’incaricò di tenere un discorso in occasione del conferimento ad Ambrosini del titolo di professore emerito. Rinvio chi vuole al testo di quel mio discorso2. Nell’occasione di una data tanto tonda come è appunto la ricorrenza dei suoi ottanta anni, mi pare meglio sviluppare qualche concetto che a quel tempo, in funzione della particolare occasione accademica, avevo lasciato in ombra e che ora, qui, in una riunione di amici e, grazie al cielo, fuori dalle mura dell’università, può essere bello rendere esplicito.

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Non c’è fatto umano che il tempo non sciolga nel nulla. Nei punti di debolezza, nei conseguenti interstizi di questa compatta non-marcatezza, si insinua di tanto in tanto il marcato: ed è così che si osserva l’esistenza di esseri umani che, per dirla rapidamente, testimoniano se stessi e, di conseguenza, la loro influenza: esseri umani che, esprimendosi con la loro vita, negano positivamente il nulla.

L’impresa, come sa ogni persona bennata, è sempre disperata. Nella consapevolezza dell’inanità del gesto sta però la garanzia della sua bellezza. E in tale bellezza, a loro volta, risiedono visibilità e memorabilità di ciò che è marcato. Dalla bellezza dipende anche ogni istanza morale, al di là della possibilità, anzi della certezza umana dell’errore. A differenza del vizio, la virtù è tale infatti solo quando è praticata senza crederci, come Gustave Flaubert dice facesse quel suo personaggio marginale, in cui, a quanto pare, trovò proiezione la figura di suo padre.

A definire gli esseri umani che, anche nolenti, sfidano il nulla negandolo con la bellezza della loro espressione (che è quel che fanno, come manifestazione di quel che sono) è un’aura – e non è nuova la mia proposta. Li circonda e permane, per esempio, anche dopo che essi hanno lasciato un luogo.

Riccardo Ambrosini ha un’aura: io ne sono testimone. Arrivai all’Università di Palermo dopo che egli l’aveva lasciata: vi trovai la sua aura, che mi condusse qualche anno dopo a Pisa. Ma non si parla di chi parla e chiudo subito la parentesi esemplificativa.

Chi ha un’aura, ha influenza e non può farci nulla. Può anche decidere di stare ad allevare polli in cima a un colle della Lucchesia, può anche abbandonare il suo posto di professore universitario anzitempo (perché ne ha giustamente abbastanza d’essere un professore e, soprattutto, d’essere volgarmente tenuto per tale): l’aura sostanzierà la sua influenza e in un modo o in un altro la bellezza che egli produce apparirà a illuminare la sua vita (e, in casi fortunati, ma non necessari alla definizione dell’influenza, tanto meno dell’aura, anche quella di altri).

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L’aura è concessa a pochi e al prezzo, per giunta, di una risentita singolarità. Non ci sono mai stati né mai ci saranno una chiesa, una nazione, un gruppo, un partito, una cosca, una fratria, un sindacato, una classe dei possessori di aura. Anzi, ovunque tali evenienze fanno la loro apparizione, funesta ma necessaria, si può stare certi che l’aura, presa eventualmente a pretesto col riferimento spesso esplicito a qualcuno che la possedeva, se ne è subito allontanata.

Nell’equilibrato computo degli umani, ai pochi e singolari fanno da contrappeso i molti privi di aura. Tra costoro, v’è chi, beato, non ha consapevolezza di tale privazione. V’è poi chi ne è nobilmente consapevole e, rassegnato, ma godendo in modo riflesso della bellezza, vive in pace con se stesso negli interstizi concessi dall’annichilimento operato dal tempo. Ad altri, spiritualmente disposti dall’invidia, che tra le forme della consapevolezza è la più comune e ignobile, la percezione dell’influenza di chi ha un’aura reca disturbo, anche perché prendono l’influenza per un valore in se stesso, quando invece si tratta solo di un transeunte epifenomeno. Bramano di averla anche loro, un’influenza, e, privi come sono dell’aura, provano a procacciarsela con la ricerca spasmodica e senza remore del suo surrogato più velenoso: un potere.

Creando chiese, nazioni, gruppi, partiti, cosche, fratrie, sindacati, classi, il potere dà influenza: chi se lo procaccia e, a ogni costo, opera per mantenerlo, pensa che tale influenza sazi la sua invidia. Ma non accade mai: l’influenza per via di potere è pasto spirituale che rende insaziabili, che divora i mezzi che la producono, che lascia nell’eterna sospensione di chi, in ogni momento, teme di perdere tutto e di perdersi. Il potere non è l’aura. È anche una semplice questione di aspetto (tema per altro caro al nostro festeggiato). L’aura, la si ha, il potere bisogna prenderlo e conservarlo.

Scuole e scolari non sono necessari allinfluenza di chi ha aura né gli forniscono prova della sua esistenza in vita. Saussure, appunto, non ebbe una scuola; non la ebbero, per restare tra i maggiori di coloro che negli ultimi secoli si sono occupati di lingue e linguaggio, Edward Sapir e Roman Jakobson. Scuola e scolari sono invece indispensabili all’influenza di chi non ha aura e ha solo potere. Che il suo tempo giudichi buono tale potere (e per questo lo lodi) o cattivo (e di conseguenza lo tema, senza avere il coraggio di spregiarlo), poco importa: il potere sarà sempre e solo contraffazione dell’aura.

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Conchiudo: dove stia, a mio parere, Riccardo Ambrosini in questa semplice tassonomia generativa, che per rispetto della pazienza di chi mi ascolta evito di articolare e di argomentare ulteriormente, l’ho già dichiarato. Non l’avessi fatto, sta luminosamente a testimoniarlo, d’altra parte, il corso dei suoi ottanta anni, per i quali lo si sta festeggiando.

Mi auguro che egli gradisca il modesto dono di pensiero indipendente che gli offre chi non vuole e, anche volendo, non potrebbe essergli scolaro, proprio perché consapevole della sua aura, sostanziata da una disposizione alla conoscenza che trova sempre in funzione di un io la sua portata universale e che, parafrasando Roland Barthes (privo di scuola anche lui, e pieno di aura), lascia che la passione per lingue e linguaggio, multiforme, valga quale individuale effetto di ferimento o di seduzione.

1Sulla vicenda, con gli opportuni rinvii, v. il mio “Ferdinand de Saussure: ironia e verità”, Prometeo 88 (2004), pp. 107-112.

2Il pensiero linguistico di Riccardo Ambrosini”, Atti dell'Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti 28 (1999), pp. 401-426.